Ombre (Itzalak)
Iban Zaldua (Itzulpena: Roberta Gozzi)

Caro lettore, questo è un numero speciale della rivista Senez, che raccoglie un testo letterario basco e la sua traduzione a diverse lingue. È il risultato del seminario dal titolo “Lo scrittore al lavoro con i traduttori” organizzato da EIZIE nell’ottobre del 2007, durante il quale il vincitore del Premio Euskadi di Letteratura dell’anno precedente ed alcuni traduttori si confrontano sulla traduzione di un testo. Quest’anno vi presentiamo in quattro lingue Itzalak (Ombre) di Iban Zaldua, racconto che dà il titolo al libro da cui è tratto.

Ombre: Nekane

Quando l’ho incontrata al museo ho dovuto sforzarmi per non mostrare il mio nervosismo, e credo di esserci riuscita, anche se dentro tremavo come una foglia. Non vedevo Marga dal 1997. Ricordo bene l’anno, perché in quel nostro ultimo incontro mi aveva raccomandato Seta, il libro di Alessandro Baricco appena uscito in spagnolo, e perché mi era piaciuto molto.

Anche lei ha cercato di mostrarsi tranquilla: mi ha abbracciata frettolosamente, come se tutti quegli anni non fossero trascorsi. Non sono riuscita a stringerla più forte e più a lungo fra le mie braccia.

Ci siamo scambiate i soliti complimenti. ‹‹Ti trovo bene. Da quando usi il rossetto?››. Da quando sto con Mikel, ho pensato, ma non ho dato nessuna risposta precisa, né a quella e né alle molte altre domande che mi ha posto. Ad ogni modo non credo che si aspettasse delle risposte. Anche le domande erano come gli abbracci: veloci, cordiali, senza enfasi.

Marga era imbruttita e molto ingrassata. L’indice e il medio della mano destra ingialliti dalla nicotina e, sotto i capelli tinti, era ben visibile la radice bianca. Non le ho detto nulla, naturalmente.

Io e Marga avevamo frequentato assieme le superiori, da “SuperPop a Rimbaud”, come le piaceva ricordare. Più che amiche, durante quegli anni eravamo una setta. Fu così praticamente dal primo giorno che ci misero vicine di banco: io García, lei Garciandía. Ci fu un periodo in cui quasi tutti i pomeriggi andavo a casa di Marga: i suoi genitori, a differenza dei miei, avevano un impianto hi-fi e ce lo lasciavano utilizzare; passammo ore ad ascoltare Rabo de Nube di Silvio Rodríguez e Berlin di Lou Reed, e a leggere, parlare e fumare. Ho scolpito nella memoria quello che Marga mi disse dopo aver letto Colazione da Tiffany: ‹‹Anch’io la penso come Holly: “E poi la patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando”››. Io avevo riso, anche se quello che mi diceva non mi sembrava affatto divertente. Io e Marga non discutevamo praticamente mai. Non ci provavamo nemmeno. Forse l’amicizia è questo.

‹‹Ti piace la mostra? – mi ha chiesto all’improvviso; non ha aspettato la mia risposta. – Neanche a me. Possiamo andarcene da qui?››. Le ho risposto di sì, che potevamo prendere qualcosa in un bar vicino, ma ha scosso la testa: ‹‹Preferisco fare una passeggiata, se per te è lo stesso. Sai com’è...››. Poi, sorridendo, ha aggiunto: ‹‹Ti sembrerà strano, no? Una volta era a te che piaceva camminare››. E’ vero: benché a me piacesse molto andare in montagna ero riuscita solo in un paio di occasioni e a fatica a portare Marga con me; la seconda volta, tra l’altro, si era quasi disidratata sul sentiero dell’Irumugarrieta, e da allora non aveva più voluto venire con noi.

Se ci penso, la montagna fu una delle ragioni per cui iniziammo ad allontanarci l’una dall’altra: nel gruppo con cui andavo a camminare avevo conosciuto Urko, il mio primo marito. La montagna e gli studi, ovviamente: Marga andò a Madrid a frequentare il corso di laurea in studi diplomatici; io, invece, rimasi a Sarriko, dove non riuscii a finire Economia. Anche le lettere, molto numerose nei primi tempi, andarono diminuendo negli anni successivi. Poi – il motivo non l’ho mai capito – Marga entrò in politica, e ci furono sempre meno occasioni per vederci. Insomma: la montagna, gli studi e quella faccenda di Yassin, ovviamente.

‹‹In questo periodo il viale è un posto fantastico per passeggiare, non credi?›› Le ho risposto che era vero, ed ero sincera: era uno di quei pomeriggi miti che solo l’autunno ci regala. Le lunghe ombre degli alberi mi ricordavano delle frecce. Sotto le nostre scarpe scricchiolavano dolcemente le foglie secche, e mi è venuta una gran voglia di prendere a calci le grosse castagne d’India appena cadute. Ma non ne ho avuto il coraggio.

‹‹Hai letto l’ultimo libro di Baricco? – mi ha chiesto. – Non è un romanzo ma è un breve saggio. Si intitola Next e parla della globalizzazione. Non so se l’argomento ti interessa ma è scritto bene, e può aiutare a capire alcune cose››. Ha fatto una pausa e, anche se solo per un attimo, si è girata, per la prima volta. Poi, ha continuato: ‹‹C’è una cosa del libro che mi ha fatto riflettere. Partendo dai fatti dell’11 settembre, Baricco dice alcune cose sulle guerre del futuro. Spiega che il concetto tradizionale di guerra ormai è sorpassato; d’ora in poi saranno tutte guerre interne: croniche, inevitabili, civili. Ho chiuso il libro e ho pensato che noi, qui nel Paese Basco, da tempo siamo i più globalizzati e i più moderni del mondo, perché la nostra guerra è proprio così. Non credi?››.

Non ricordo cosa ho risposto a Marga, ma non credo che si aspettasse una risposta neppure questa volta. Abbiamo continuato a parlare del più e del meno, finché non siamo arrivate al ponte della ferrovia; a quel punto le ho detto che dovevo andare, che ci saremmo riviste. Un altro abbraccio fugace ed ognuna ha preso la propria strada: io verso nord, verso casa, e Marga, con una guardia del corpo dietro di lei, verso est.

Non so se abita da quelle parti.

Ombre: Marga

Marga si lascia Nekane alle spalle. Si allontana con passo veloce e sicuro, o per lo meno così sembra. Rimane sola e deve decidere, per esempio, se camminare vicino alla sua guardia del corpo, o se deve lasciare che lui continui a seguirla da dietro: sta sempre decidendo la stessa cosa, sta sempre cambiando l’ultima decisione presa. Quasi tutte le guardie del corpo preferiscono stare a una certa distanza, indipendentemente dal livello di confidenza raggiunto con la persona scortata. Con quest’ultimo, Eduardo, Marta va abbastanza d’accordo, ma con quello di prima, Antonio, si trovava più a suo agio: si metteva al suo fianco senza problemi, come se fossero amici che stanno passeggiando. Al loro fianco, si è subito corretta, perché quando Antonio era la sua guardia del corpo Jose Javier viveva ancora in città, ed uscivano spesso assieme. E Marga aveva avuto il sospetto che la compagnia che Antonio desiderava non fosse la sua ma quella di suo marito, Jose Javier. Perché Jose Javier è molto simpatico, questo non si può negare. Non è per niente classista, ed è in grado di parlare di qualunque argomento, della riforma fiscale come di calcio, di Habermas come dell’ultimo pettegolezzo di Crónicas Marcianas. “Come posso essere classista, essendo figlio di lavoratori?”, era solito dire Jose Javier, orgoglioso, ed aggiungeva: “Mio padre lavorava in miniera”. Ma non era un lavoratore qualsiasi, ricorda Marga ripensandoci: il padre di Jose Javier era riuscito a diventare caposquadra. In ogni caso, non ne aveva saputo nulla fino a qualche anno dopo il loro matrimonio. Marga non aveva conosciuto il padre di Jose Javier, perché era già morto quando, a Madrid, aveva iniziato a uscire con quello che poi sarebbe diventato suo marito.

No, Marga crede che davvero non fosse lei il motivo per cui Antonio, la guardia del corpo, camminava al loro fianco. Infatti, da quando avevano mandato Jose Javier a Bruxelles, aveva camminato poche volte vicino a lui, e quando era successo era stato perché lei aveva insistito: quando il bisogno di compagnia e di parlare con qualcuno avevano avuto la meglio sulla sua timidezza e i suoi timori. Quando Jose Javier era lì, ricorda che non c’era bisogno di dirgli niente perché si unisse a loro: si metteva al loro fianco, senza bisogno d’altro e camminavano chiacchierando come fossero vecchi amici. Anche con lei. Con Marga. Ma è sicura che il catalizzatore non era lei, bensì Jose Javier. La simpatia naturale di Jose Javier.

Non ha ancora fatto la prova con Eduardo, la nuova guardia del corpo: Jose Javier è tornato poche volte da Bruxelles, e per pochi giorni; tra l’altro, in queste occasioni, passa più tempo a Madrid che nel Paese Basco, e quel paio di volte che si è fermato qui non sono usciti da casa. Tuttavia è sicura che quello che succedeva con Antonio succederebbe di nuovo.

Sarebbe stato addirittura possibile chiederlo direttamente ad Antonio, quando era la sua guardia del corpo. Per esempio quella notte che si erano ubriacati assieme. Suo marito si era trasferito da poco a Bruxelles. Ma sebbene quella notte avessero parlato molto, non gli aveva accennato a questa faccenda. In ogni caso, tutto era iniziato in modo stupido, nel pub dove servono i migliori cocktail della città, e lì era anche finito, a notte inoltrata; avevano abbassato la saracinesca e loro erano rimasti lì ancora a lungo – il proprietario era un conoscente di Marga –. Avevano messo per loro tutti i dischi di Brian Ferry e alcuni di Sade. A notte fonda Marga si era resa conto, in uno di quei rari momenti di lucidità che si hanno nella vita, che avrebbe potuto portarselo a letto, e che anche Antonio lo sapeva benissimo. Ma non avevano fatto niente, ne l’uno né l’altra. La guardia del corpo l’aveva accompagnata fino al portone di casa, come sempre; Marga barcollando aveva raggiunto a fatica l’ascensore ed era arrivata a casa.

Solo quella notte aveva avuto quella sensazione. Antonio non aveva chiesto immediatamente il trasferimento: aveva aspettato che passassero tre o quattro mesi. Poi a Marga avevano mandato Eduardo o, per essere più precisi, Eduardo era diventato quello che più frequentemente stava con lei. A volte, per via dei turni, si ritrova con altre guardie del corpo, Joseba, Pablo, e uno biondo di cui si è già dimenticata il nome. Ma Eduardo è il più stabile, come prima lo era stato Antonio.

Come sempre, Eduardo l’ha accompagnata fino al portone di casa; poi, con un saluto distaccato, se n’è andato. Non c’è bisogno di aggiungere altro, hanno già parlato prima delle cose da fare domani: alle dieci in punto sarà sotto casa, perché c’è un consiglio comunale. Ancora pochi minuti per controllare i dintorni dell’abitazione di Marga, e poi se ne andrà.

Quando entra saluta il portiere. Nella cassetta della posta non trova che pubblicità e una lettera della segreteria del partito. Nell’ascensore accende una sigaretta. Entrata in casa, disattiva l’allarme e poi si preparata un cocktail Martini. La bottiglia di Gin è quasi finita, così va in cucina per aggiungere alla fine della lunga lista della spesa da fare: “Beefeater 1”. Lo ha scritto sotto “Fazzolettini di carta”, parola e numero con calligrafia chiara e tondeggiante.

Si è soffermata a pensare più di una volta chi gli ricorda questo Antonio, ma finora non ha trovato una risposta: l’incontro avuto con Nekane ha aperto a Marga le finestre della memoria. Il tipo assomiglia a Yassin. Forse non gli assomiglia molto ma in qualcosa sì. Se avesse una sottile barba, la guardia del corpo assomiglierebbe molto a Yassin. Una barba sottile e la pelle scura, ovviamente.

Le sembra strano iniziare a pensare a Yassin, aveva nascosto a lungo a Nekane di essere andata a letto con lui. Era successo solo una volta. È qualcosa che ha sempre avuto l’intenzione ma mai il coraggio di raccontarle. Si rende conto che forse questo è uno dei pezzi del muro che si è alzato fra loro due: non l’unico, forse non il più importante, ma sicuramente il primo.

Vede la spia della segreteria telefonica accesa e schiaccia il bottone. E’ la voce monotona di Jose Javier, da Bruxelles: non riesce a sentire l’inizio del messaggio. “... qua fa un freddo terribile, lo sai. Domani mattina andiamo ad una mostra di Edvard Munch, al museo di Ixelles. Ti chiamo all’ora di pranzo, spero di trovarti...”.

Ha bevuto un altro sorso del Martini e si avvicina alla finestra. Eduardo è lì, fermo sotto l’ippocastano davanti a casa. Vede uscire dalla sua bocca l’ultima boccata di fumo, e vede anche come schiaccia il mozzicone di sigaretta con la punta della scarpa. A Marga sembra impieghi molto tempo a compiere quel gesto.

La guardia del corpo, alla fine, dopo aver guardato ad entrambi i lati della strada, si allontana tranquillamente.

Ombre: Eduardo

Inizia a schiacciare il mozzicone di sigaretta con la punta della scarpa, un gesto studiato. Eduardo l’aveva visto fare in un film, da giovane, quando ancora non fumava: gli era sembrato molto elegante, ed aveva iniziato coscientemente a imitarlo. A volte pensa di aver cominciato a fumare per poter emulare quell’azione, per ripetere lo stesso gesto distinto che faceva Clark Gable quando finiva una sigaretta. La breve parabola del mozzicone – non deve cadere troppo lontano – un passo avanti con un movimento apparentemente indifferente della gamba, una leggera pressione con la punta della scarpa, ultimo gesto che a lui piace prolungare un po’. E basta.

Mentre sta facendo questo, un pensiero riempie la sua mente. O meglio, un ricordo: il ricordo di Mikel. In ogni caso la ragazza di Mikel non si è nemmeno resa conto che lui era lì, quando al museo si è incontrata con Marga, e nemmeno dopo, quando hanno passeggiato assieme. Eduardo è abituato allo sguardo veloce che di solito viene rivolto alle guardie del corpo, tra l’altro, quante volte aveva incontrato quella donna? Due o tre? E lei era sempre rimasta in disparte, mentre lui e Mikel si scambiavano due parole. Se almeno fosse venuta a qualche cena, ha continuato a pensare, probabilmente l’avrebbe riconosciuto, ma Mikel ha smesso da tempo di andare alle rimpatriate dei compagni di studi, ed ha iniziato a uscire con quella ragazza più tardi. Edu non ricorda bene il suo nome. Aintzane, Goizane, Nekane. Non ne è sicuro. Una volta Manu gli aveva parlato di lei.

Mikel ed Edu, ai tempi dell’università, erano inseparabili, avevano vissuto nello stesso appartamento per tre anni, ed entrambi non avevano passato, più di una volta, l’esame di Diritto romano. Però alla fine ce l’avevano fatta assieme, al quinto appello. Con lo stesso voto: 6,5.

Erano in sette a comporre il gruppo di amici dell’università. Sei di loro continuano a vedersi due o tre volte all’anno, per un pranzo o una cena; senza contare, ovviamente, gli incontri casuali. Per esempio vede spesso Manu, soprattutto da quando hanno i bambini: anche lui ha due figli, della stessa età di Patxi e Sabiñe, ed inoltre vivono dalle stesse parti. Ma la compagnia al completo, ufficialmente, si riunisce senza le donne, e non più di due o tre volte; l’ultima volta a Bergara, nel ristorante Lasa. Mikel è stato l’unico a smettere di andare a quegli incontri.

Eduardo non si ricorda esattamente quando avevano smesso di chiamare Mikel. Per colpa di Mikel, di questo è sicuro. Manu se ne ricorderà meglio; alla fine è lui il più attivo del gruppo, è lui che si occupa di scegliere il ristorante e di chiamare per telefono. Prima parlavano più spesso di Mikel, lui e Manu. Non si è mai veramente arrabbiato con lui. Eduardo sa che a Mikel non piacque affatto che lui entrasse nella Polizia basca. E, ancora prima, che lui avesse fatto il servizio militare. Mikel, ovviamente, aveva fatto l’obiettore totale e aveva avuto la fortuna di non finire in carcere. Ma anche Manu era stato un obiettore e non gli aveva mai rinfacciato niente. Cosa c’era di male nell’essere entrato in Polizia? Non era certo il sogno di Eduardo, ma bisogna pur vivere, maledizione. Si sono forse avverati i sogni di qualcuno? Anche quel lavoro in uno squallido ufficio di una ONG non era certo il traguardo più ambito per diventare un avvocato famoso. E facendo il confronto, cosa c’è di male nella Polizia basca? No, quello non era mai stato il sogno di Eduardo, ma non ne poteva più dei lavori saltuari nel periodo della dichiarazione dei redditi, non ne poteva più di essere disoccupato per nove mesi all’anno.

Arrabbiarsi no, ma aveva provato una sorta di rancore quando Mikel non era andato al suo matrimonio. Veramente Mikel non era mai andato a nessun matrimonio degli amici, era sempre stato contrario al matrimonio e non c’era niente di personale nella sua decisione – come spesso gli ricordava Manu – ma Eduardo non aveva potuto evitare quell’amara sensazione. Da quello che gli hanno raccontato pare che adesso si sposi con quella donna mora con cui oggi si è incontrata Marga, con la tal Goizane o Nekane.

“Mikel dovrà rimangiarsi tutte le sue prediche contro il matrimonio”, gli aveva detto Manu, con tono scherzoso, una volta al parco. “Sono sicuro che Mikel avrà qualche solida giustificazione anche per questo, articolata come quelle che in un’altra epoca aveva contro il matrimonio” gli aveva risposto Eduardo. “È un opportunista dei sentimenti” aveva aggiunto, parafrasando la frase sprezzante che un tempo utilizzava lo stesso Mikel. Sapeva di provare ancora del risentimento nei suoi confronti, non glielo aveva perdonato, non glielo avrebbe mai perdonato. “Non esagerare”, gli aveva detto Manu, che doveva ricordarsi benissimo che quella faccenda dell’opportunista dei sentimenti era una frase di Mikel. “Non esagerare”, aveva ripetuto, “tutti abbiamo il diritto di cambiare”.

In quel momento si rende conto che sta continuando a schiacciare il mozzicone di sigaretta con la punta della scarpa, e di aver dedicato un tempo lunghissimo a quel gesto. Interrompe bruscamente il movimento del piede.

La guardia del corpo non vuole alzare lo sguardo verso la finestra del quarto piano, perché sospetta che Marga sia lì. Per oggi è finito il suo turno: non vuole subire per l’ultima volta lo sguardo della donna che protegge.

E così Eduardo guarda ai due lati della strada e poi si allontana, con fare apparentemente tranquillo.

Ombre: Nekane (II)

So già che cosa mi aspetta a casa. Più o meno. Il saluto di Mikel, forse un bacio, e poi la cronaca della sua giornata. Una delle sue riunioni. Qualcosa legato al lavoro. E l’analisi, non troppo precisa, di tre o quattro notizie lette sulle pagine del Gara. Ripeterà una serie di parole: “diritto”, “figlio/i di puttana”, “che schifo”. Io gli risponderò qualcosa: non mi piacciono i silenzi. Niente di serio, comunque. Poi parleremo della camminata del prossimo fine settimana. Domenica scorsa, in macchina, quando stavamo tornando, mi ha accennato a Belagua. Ma potrebbe essere anche Udalaitz. Oppure Anboto: da tempo non saliamo sulla cima. Chi lo sa.

Ma è impossibile, adesso che ci penso: questo fine settimana dobbiamo andare al carcere di Soto del Real, per far visita a Urko; me n’ero quasi dimenticata. Dobbiamo rimandare la gita in montagna al fine settimana successivo.

Mikel mi chiederà della mia giornata, ovviamente. Di solito non se ne dimentica e lo ringrazio segretamente per questa attenzione. Ma non gli accennerò nulla, anzi utilizzerò una delle solite formule: “Bene”, “Niente di che”, “Come sempre”. Non ho per niente voglia di raccontargli l’incontro con Marga.

L’incontro ha smosso qualcosa dentro di me, ne sono sicura. Così come sono sicura che, appena resterò sola, prenderò le lettere di Yassin dalla vecchia scatola di scarpe. Non so se ci farò qualcosa, nemmeno se le toglierò dalle buste. Non è necessario. Ma mi è venuta voglia di toccare ancora una volta quella carta ingiallita.

Conoscemmo Yassin venticinque anni fa. Doveva essere estate, poiché passavamo i pomeriggi a passeggiare per il quartiere, senza niente di speciale da fare. Stavamo in piazza o sotto i portici, e in tutto il pomeriggio entravamo due o al massimo tre volte al bar. A bere una birra: a casa non ci davano molti soldi ed eravamo sempre squattrinate. Ci annoiavamo molto quando arrivavano le vacanze.

Avevamo appena compiuto quindici anni o stavamo per compierli. A quei tempi io uscivo sempre con Marga e Cristina: un trio che non riusciva ad essere un gruppo. Cristina morì un anno e mezzo dopo, con i suoi genitori, in un incidente stradale, mentre si recavano al paese per trascorrere il fine settimana. Villanuño, Burgos: non so perché ricordo con tanta precisione il nome del paese natale dei genitori di Cristina; il viso di Cristina invece mi si è quasi cancellato dalla memoria, benché fosse la più bella delle tre, o forse proprio per quello. I capelli sì, li ricordo bene: eravamo molto invidiose della sua chioma nera.

Stavamo sedute sulle scale della piazza, chiacchierando del più e del meno, o in silenzio, chissà, quando si avvicinò a noi. Ci chiese se da quelle parti ci fosse una discoteca, educatamente. In inglese: probabilmente non era un gran inglese poiché capimmo tutto quello che ci disse. Era l’uomo più nero che avessimo mai visto. In quel periodo, alla fine degli anni ‘70, non si vedevano molti neri dalle nostre parti.

Se non fosse stato così nero, gli avremmo riso in faccia, sicuramente: una discoteca, alle cinque e mezzo del pomeriggio, un giorno feriale qualsiasi. Comunque non ridemmo. Gli spiegammo, molto nervose, che fino alle sette o alle otto non avrebbero aperto il Dallas, che si trovava quattro strade più in basso, e nemmeno lo Yes che era un po’ più lontano. Come potemmo, perché il nostro inglese da seconda superiore non ci permetteva altro. Noi non andavamo mai né al Dallas né allo Yes.

Ci disse che si chiamava Yassin e che veniva dal Kuwait. Un marinaio appena sbarcato. Avrebbero passato alcuni giorni ancorati nel porto e lui voleva conoscere un po’ i dintorni. Oltre a spiegargli dov’erano le discoteche, gli indicammo anche i bar che erano aperti. Ci ringraziò cerimoniosamente e se ne andò. Ci fornì argomento di conversazione per buona parte del pomeriggio.

A tutte e tre sembrò molto brutto: simpatico, ma brutto. Quella fu la conclusione principale a cui giungemmo quel pomeriggio.

Il giorno dopo, alla stessa ora, Yassin riapparve di nuovo in piazza e, come tutti i pomeriggi, anche noi eravamo lì. Non demmo molta importanza al fatto, lui ci salutò da lontano, sembrava contento e si avvicinò a noi. Ci chiese un paio di informazioni sulla città e in qualche modo gli rispondemmo. Poi iniziò a parlarci della sua nave, dell’equipaggio, del Kuwait, dell’Egitto, dei porti e delle città che aveva visitato. Si sedette vicino a noi sulle scale della piazza, ogni tanto gli chiedevamo qualcosa, ma senza esagerare: non sembrava aver bisogno delle nostre domande. Era simpatico, diverso. Anche divertente, perché a volte confondeva i nostri tre nomi.

Non so quanto tempo passammo così. A un certo punto Yassin si alzò e ci chiese se volevamo bere qualcosa. Non so se ci guardammo in faccia, ma ricordo che tutte e tre assieme ci alzammo e ci incamminammo con lui verso il bar più vicino. Noi ordinammo tre birrette, lui un Cuba libre. Ovviamente non ci permise di pagare.

Prima delle nove di sera, il nostro orario di rientro, entrammo in altri due o tre bar. Non ci lasciò pagare nemmeno una volta. Nell’ultimo bar ci offrì un tramezzino; noi conoscevamo bene i tramezzini di quel bar, esposti elegantemente sul banco, ma non li avevamo mai assaggiati, perché per noi erano troppo cari. Io e Cristina dicemmo di no a Yassin, con un gesto di ringraziamento, ma Marga accettò l’invito; anche Yassin ne prese uno. Inutile dire che io e Cristina demmo un morso al tramezzino di Marga. C’erano uovo sodo, lattuga e maionese. A tutte e tre sembrò squisito.

I due giorni successivi furono simili: Yassin si presentava in piazza, parlavamo più o meno a lungo, facevamo il giro dei bar – passavamo molto tempo in ogni bar – e quando erano le nove, lo salutavamo. La scena del tramezzino si ripeté tutte le volte nell‘ultimo bar come il primo giorno. Yassin ormai faceva parte della nostra routine.

Il quinto giorno, mentre eravamo in un bar, ci propose di andare al Dallas e noi accettammo. La discoteca era in uno scantinato, e bisognava scendere delle ripide scale: saranno state al più tardi le sette e mezza di un pomeriggio di sole, ma all’interno del Dallas sembrava notte; credo che la cosa che più ci colpì fu l’oscurità del locale, quel giorno, anche se poi negli anni successivi divenne la cosa più normale del mondo, per me e per Marga. Le luci stroboscopiche, le grandi palle fatte di piccoli specchi al soffitto, le canzoni dei Bee Gees e dei Village People, tutto ciò ci colpì meno dell’oscurità del posto.

Chiedemmo una sola birra alla spina per tutte e tre. Praticamente non si poteva parlare, tanto il rumore era assordante. Yassin voleva che ballassimo, ma noi rimanemmo sedute vicino al banco. Alla fine Marga si alzò e iniziò a ballare con lui. Ma quando misero un lento, Yassin venne da Cristina; lei gli disse di no, ovviamente. Al lento successivo invitò me, e anch’io gli risposi di no. Fece l’ultimo tentativo con Marga, ma lei non avrebbe accettato ciò che noi due avevamo rifiutato – le nostre leggi non scritte erano molto rigide rispetto a questo – e gli disse di no. Tra l’altro erano già le nove; dovevamo tornare a casa. E così facemmo.

Il giorno dopo, come ogni pomeriggio, Yassin venne in piazza. Ma non si sedette con noi: rimase in piedi. La visita non durò molto: era venuto a salutarci. Ci disse che eravamo delle ragazze molto simpatiche, ma lui voleva conosce delle donne più grandi. Queste furono le sue parole: “I would want to know elder women”. Ci diede il suo indirizzo e ovviamente anche noi demmo i nostri a lui: glieli scrivemmo su un foglio a quadretti. Poi, come sempre molto educatamente, ci diede un ultimo saluto.

Questa fu la storia. Più di una volta ne parlammo tutte e tre, nei mesi successivi. Poi ci fu l’incidente di Cristina, e io e Marga diventammo le più amiche del mondo, fino alla fine delle superiori.

Ricevetti la prima lettera di Yassin alla fine del primo anno di università, alcuni anni più tardi. Il timbro postale era di Città del Capo, la sua nave avrebbe attraccato di nuovo nel nostro porto e gli sarebbe piaciuto avere la possibilità di incontrarmi un’altra volta. Mi chiedeva di Marga e di Cristina, ma mi parlava soprattutto di quella notte che avevamo passato assieme; allora sapevo meglio l’inglese e mi resi conto che aveva cercato di scrivere in tono poetico.

Per i dettagli a cui accennava non poteva che essere Marga quella con cui aveva passato la notte: quella che era andata a letto con Yassin. Il giorno successivo a quando ci aveva saluto, o per lo meno questo lasciava intendere la lettera. Non so come avesse fatto Marga a trovarlo; se ci penso bene, non doveva essere stato così difficile, perché nel porto sicuramente non c’erano molte navi battenti bandiera del Kuwait. In ogni caso, non ho mai capito perché mandasse a me quella lettera, forse pensava che io fossi Marga: fin dall’inizio aveva fatto confusione con i nomi, oppure era stata la stessa Marga a dargli il mio indirizzo quella notte. Nella lettera ero io quella che aveva perso la verginità fra le braccia di Yassin.

Non l’ho mai saputo perché Marga non mi ha mai raccontato niente. Forse perché nemmeno io le ho mai chiesto niente. All’inizio, appena ricevuta la prima lettera di Yassin, fui sul punto di chiamare la mia amica, a Madrid, nel pensionato per studenti dove viveva. Decisi, invece, di aspettare. Alla fine dell’anno scolastico, quando ci rivedemmo, ovviamente, non accennò minimamente al fatto; non ce n’era ragione, a dire il vero. Io non le dissi niente della lettera. Avevamo già iniziato ad allontanarci.

Fui sul punto anche di rispondere a Yassin; per esempio per fissare un appuntamento con lui. Ma alla fine non feci nulla. Lui sarebbe arrivato in città e forse sarebbe venuto nel nostro quartiere, si sarebbe addirittura presentato in piazza. Chi lo sa. Io, in ogni caso, nei giorni che lui indicava nella lettera, non mi ci avvicinai nemmeno.

Durante i due anni successivi ricevetti altre tre lettere di Yassin: una inviata da Kiel, un’altra da Lagos e la terza da Genova. In tutte utilizzava lo stesso tono, un tono che mi ricordava il romanzo più romantico della collana Jazmin, in qualche modo. Tutte le volte ebbi la tentazione di rispondere, ma non l’ho mai fatto. Dopodiché, non poteva andare diversamente, il silenzio.

Mi ricordai di Yassin, ovviamente, nel 1991, quando iniziò la prima Guerra del Golfo. Ne avrei parlato volentieri con Marga, forse, ma ormai non ci vedevamo molto raramente. Quell’anno si presentò per la prima volta alle elezioni amministrative.

Sono arrivata a casa. Mikel mi ha dato un bacio e mi ha chiesto com’è andata la giornata. ‹‹Ho avuto una riunione con Panpi e con Joxi; come ti ho detto ieri››, ha continuato poi.

‹‹E com’è andata?›› gli ho chiesto io. Ma il mio pensiero è già sopra l’armadio, in quelle vecchie lettere di Yassin che subito prenderò e toccherò.

Ombre: Gli appunti di Aritz

La signora Garziandia, per andare al consiglio comunale, ha preso la solita strada.

Alle nove e mezza (09:33) è uscita di casa, il guardaspalle la aspettava davanti al portone (lo stesso ”Gorilla” che è stato con lei durante le ultime settimane) e hanno percorso assieme a piedi la strada fino al comune: via Navarra, via Leizarraga, corso San Ignazio, piazza del Consolato, via Txabarri, via Presidente Agirre e Piazza del Popolo (attenzione: quello che nella nota precedente abbiamo chiamato “percorso B”, ma oggi quasi sempre sul marciapiede di sinistra). Hanno coperto il tragitto velocemente: alle dieci meno dieci erano davanti all’edificio comunale (09:52); è entrata dalla porta laterale.

La riunione di oggi è durata molto. Quasi tutti i consiglieri sono usciti per il pranzo, alcuni sono andati a casa e altri ai bar dei dintorni (la maggior parte di quelli del PNV, per esempio, sono andati al Batzoki). Ma la Garziandia ha pranzato all’interno dell’edificio, o per lo meno così credo, perché il guardaspalle, dopo aver passato l’intera mattinata vicino al portone del comune e dopo aver ricevuto una chiamata al cellulare, è entrato nel bar Goizeko-Kabi; dopo un quarto d’ora è uscito con una borsa di plastica in mano, sicuramente con un panino per la Garziandia.

Il consiglio comunale è terminato verso le cinque, e la maggior parte dei consiglieri è uscita subito; Garziandia alle 17:04, per la precisione. Poi si è avviata verso la passeggiata che costeggia il fiume, con il guardaspalle a cinque-sei metri di distanza: via del Foro, la salita del Seminario, via Elgeta, la zona pedonale. E’ entrata al museo, come è solita fare quando aprono una nuova mostra. E’ rimasta dentro una mezz’ora (è uscita alle 17:48). All’interno del museo ha incontrato un’amica, a noi sconosciuta: una donna dai capelli neri, altezza 1,75 circa, più giovane di Garziandia, indossava una giacca di pelle rossa e dei jeans corti. Hanno percorso assieme il viale fino al ponte della ferrovia, dove si sono salutate (18:12): la donna sconosciuta si è avviata verso il quartiere di Gerezienea, Garziandia verso casa. Non sembra un incontro abituale, ma se si ripetesse sarebbe opportuno raccogliere ulteriori informazioni sulla donna.

Poi ha preso la strada di casa; il Gorilla non si è mai avvicinato a lei. Hanno seguito il “percorso C”, grosso modo: via Arregi (18:14), via Gernika (18:20), via San Agustín (18:25), piazza del Seminario di Bergara (18:31), questa volta sul marciapiede di destra, ad eccezione di via San Agustín. Il “percorso C”, di solito, invece della via Arregi procede su via Azkue, pertanto ho pensato di chiamare questa variante “C-bis”.

È arrivata a casa alle 18:36; sembra che suo marito sia ancora all’estero. La luce del salotto si è accesa alle 18:38. Il guardaspalle è rimasto più del solito vicino al portone, fumando, prima di andarsene (18:46) (da tenere in considerazione). Credo che Garziandia sia rimasta vicino alla finestra della sala, ma non posso dirlo con certezza, perché dal luogo dove io la osservo i rami degli alberi della strada coprono per metà quella finestra. Poi si è accesa la luce della camera da letto, ma dopo pochi secondi l’ha spenta.